Daniela Cattani Rusich
Oggi, cavia delle nostre domande, è una scrittrice, poetessa, e chi più ne ha più ne metta, in piena regola: già affermata e famigerata in tutto lo Stivale!
Ecco le domande:
1. Daniela Cattani Rusich, per il volgo della rete Danilù*, nacque a Milano sul fosco fin del secolo XX, se così si può dire: nel 1964. Miscuglio promiscuo di nazionalità la nostra Daniela è un po’ greca, slava, turca, armena… e friulana, oltre che milanese! Parlaci un po’ di te e di queste culture che ti porti a dietro e che, certamente, avranno avuto una seppur piccola parte nel tuo essere.
R: Beh, danilù* è il mio nick storico, contrazione di Danj e lulùdhi, che in greco significa fiore; ma ormai mi firmo sempre col mio nome e cognome. Riguardo alla mia variegata famiglia, il miscuglio di etnie che la – e mi – compongono ha avuto un’importanza fondamentale, sebbene me ne sia resa conto solo “da grande”. Fin da piccola mi sentivo diversa, ero solitaria e allegra al tempo stesso, selvaggia e ipersensibile: un groviglio di emozioni e di modi di essere. Solo col tempo ho capito, che mi mancavano radici per poter crescere forte e sana, dentro e fuori; così ho sentito il bisogno di recuperarle, studiando, cercando, scavando. Quella che sento più vicina a me è la cultura greca, sono anche l’unica dei tre figli fisicamente simile a mia madre (che peraltro sembra più francese che greca!), mentre mia sorella e mio fratello hanno colori chiari come papà, e sono alti.
In famiglia non mi sono mai sentita “a casa” e questa è una sensazione con cui convivo tuttora e che mi accompagnerà sempre; continuo a cambiare abitazioni, ormai è una sorta di disturbo ossessivo compulsivo conclamato e irreversibile. Casa per me è altro, qualcosa di ideale, di intimo, che fa stare bene: la bellezza della natura, l’abbraccio del mio uomo, le fusa della mia gatta, i miei libri, la mia musica e, più in generale, la poesia. Non è una cosa fissa, è mutevole… l’importante è portarsi sempre dietro il necessario: se stessi.
Il “disturbo” di cui parlavo prima probabilmente dipende anche dal fatto che, l’unico italiano della famiglia, mio padre, ci ha fregati tutti: era lui il vero nomade! Ha sempre portato in giro per l’Italia mia madre, i miei fratelli e me; in cinque anni di elementari ho cambiato scuola quattro volte, vedi un po’ tu… Questo, insieme alle mie lontane radici zingare, ha rafforzato la sensazione di essere una senza terra. Per fortuna avevo il mio segreto – la scrittura- ad accompagnare la mia parte in ombra, e il mio sorriso – la voglia di condividere – a illuminare l’altra parte di me. Potrei dire che da mia madre ho preso il vento e l’azzurro di Rodi, da mio padre ho preso la roccia e la testa dura dei friulani: poi io ci ho aggiunto il mio fuoco. Il sangue misto che mi scorre nelle vene… quello c’è e si sente, anche nella mia poesia.
2. Nonostante un’infanzia infelice, Daniela ha avuto una giovinezza piuttosto impegnata tra lavori all’interno di redazioni e come membro di bande musicali; incominciò a scrivere a otto anni, sebbene solo negli ultimi quattro abbia iniziato a farlo “seriamente”. Come mai a quell’età e, sopratutto, come mai ora? Cosa intendi, più precisamente, per “scrivere seriamente”? E prima, invece, come lo facevi?
R: Una volta mi aiutava nei momenti difficili, come ho già detto. C’erano anche i momenti felici, in genere quelli trascorsi con mio padre a inseguire farfalle e lucertole in campagna, a fare collezione di minerali, corse in bicicletta “da cross”, insomma cose “da maschio”; poi il cinema d’avventura, i libri di cui lui riempiva la casa, la fotografia di cui era un grande appassionato. Mio padre è la persona che mi ha fatto più male nella vita, ma è anche quello che mi ha insegnato il piacere della ricerca e della scoperta, e soprattutto il senso del viaggio. Come scrive Proust: l’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi. Scrivere era il mio modo per sentirmi libera, quando non potevo esserlo diversamente.
Scrivevo seriamente anche allora, così come ho sempre letto moltissimo, e non ho mai smesso di farlo, ma lo facevo per me; adesso è diverso perché ho vissuto molto, moltissimo; atrimenti non avrei così tante cose da dire. Il confronto con gli altri, prima sul web e poi dal vivo, mi ha dato la certezza che era quello che sapevo e desideravo fare. Così, com’è nel mio carattere, ho iniziato a leggere e studiare di tutto, a esercitarmi, a sperimentare, con una nuova consapevolezza, ma sempre in modo istintivo, perché io sono un’istintiva.
3. Non solo l’infanzia ma anche, come diceva Dante, la seconda etade: la gioventute, è stata per Daniela piuttosto travagliata. Tra varie vicissitudini e problemi di salute, dopo che, a vent’anni, se ne andò di casa, ebbe un periodo davvero difficile. Come sei passata attraverso tutto questo e come, più pertinentemente all’intervista, la scrittura si è coniugata con “gli avversi numi e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta”?
R: L’adolescenza è stata fantastica: ne ho combinate di tuti i colori, ma il distacco dalla mia famiglia fu molto più traumatico di quanto potessi immaginare: ero una ribelle, non stavo alle regole, con mio padre ero alle strette, insomma… sentivo di dover andare via. Purtroppo a ventitrè anni, dopo una serie di esperienze devastanti, mi ero ridotta a pesare venticinque chili e coi chili persi avevo smarrito anche tutta la fiducia in me stessa. Questo mi è costato tre mesi in ospedale psichiatrico – un inferno – e una bella fetta di salute volatilizzata, ma avrei potuto morire e non è successo. In quel periodo scrivevo soprattutto fiabe, che mi consentivano di evadere da una realtà che non volevo vedere e spezzavano per qualche attimo le sbarre della mia prigione. Poi ho capito che l’amore per la vita in me era troppo prepotente, non potevo tradirlo. Bisogna toccare il fondo per risorgere, le forze possiamo trovarle solo dentro di noi, non c’è nessuno che può aiutarti in certi momenti, nessuno, anche se lo vuole. Nei mesi sucessivi al ricovero stavo peggio di prima, finché non ho buttato le medicine e sono ingrassata bevendo olio e mangiando miele; poi, appena ho ricominciato a reggermi da sola sulle mie gambe, ho tirato fuori “lo spirto guerrier ch’entro mi rugge” e sono andata a rompere le scatole alle varie testate locali: volevo scrivere. L’ho fatto, così sono diventata pubblicista. E pian piano ho ricominciato a vivere.
4. Dei tanti testi che Daniela ha scritto, molti sono finiti in una silloge: Rendimi l’Anima. Si tratta di un libretto di piacevole lettura che trasmette, attraverso i suoi testi, un grande forza di vivere, per lo meno per quanto sia riuscito a leggervi. Per di più, è un’opera che ha ottenuto anche dei riconoscimenti, parlacene!
R: Sono felice di riuscire a trasmettere questa forza, se non ne avessi avuta, non sarei qui a raccontarlo e raccontarmi. Il mio messaggio è banale, lo so, ma è quello di non mollare mai, anche quando soffri infinitamente e per lungo tempo; dentro di te c’è sempre una scintilla a cui aggrapparti; non parlo di fede, perché io sono agnostica e un po’ pagana pure, ma del talento che tutti abbiamo dentro, un daimon che va ascoltato e seguito.
“Rendimi l‘anima” è una raccolta di poesie sull’amore, sul sé e sul mondo: c’è dentro un po’ di tutto questo, da poesie introspettive a poesie sociali, alla mia concezione dell’esistenza. Nel 2008 la silloge è arrivata terza al concorso nazionale “Poetando” della Albus edizioni e finalista al concorso “J. Prevert” della Montedit. Ma non è questo che mi interessa, anche se ovviamente mi fa piacere: mi appassiona stare in mezzo agli altri, recitare poesia o prosa, poter comunicare, emozionare ed emozionarmi. Sperimentare sempre. Perciò accompagno le mie presentazioni con videopoesie, che realizzo insieme al mio compagno e non solo per me, anche per altri; perciò parlo molto con le persone e amo i progetti collettivi: ognuno di noi è un mondo da scoprire. E più ti dai, spontaneamente, più ricevi in cambio.
5. Tra i vari, numerosi premi e raggiungimenti conseguiti, menzioni anche il fatto di essere stata pubblicata su diverse antologie: che effetto fa essere entrata a pieno merito nella letteratura italiana? Che effetto fa la possibilità di venire eventualmente “studiata”? Ma, sopra tutto, che effetto fa essere così tanto apprezzata?!
R: Ahah, macchè entrata… sono ancora qui che aspetto nell’anticamera! Studiata magari per motivi di tipo neuropsichiatrico, intendi? Ci hanno già provato in tanti, ma nessuno ci ha mai capito qualcosa, è una causa persa.
A parte gli scherzi, essere apprezzata è una sensazione bellissima: vedere i primi testi pubblicati mi ha infuso coraggio e determinazione; il fatto stesso di riuscire a trasmettere qualcosa agli altri, di condividere la mia passione ha rafforzato la mia autostima, che non è altissima come può sembrare a uno sguardo superficiale, visto che sono entusiasta e intraprendente. Il momento che amo di più, dopo quello della creazione, è proprio l’incontro, il dialogo con gli altri. Sembra strano per un poeta, che in genere è un po’ orso, ma io sono piena di contraddizioni e ormai mi tengo così. Amo l’ombra quanto amo la luce.
Per quanto riguarda premi et similia, mi piace menzionare il primo premio assegnatomi dall’associazione “Them romano” alla sedicesima edizione del Concorso Artistico Internazionale sulla cultura romanì con un racconto breve, Porrajmos – l’olocausto zingaro, un testo a cui tengo molto per la tematica trattata. E poi il primo premio con Segreta al concorso “Un monte di poesia 2009”, perché è stata la prima volta che mi hanno dato dei soldi e il mio compagno – che è mezzo ligure e mezzo olandese – ha esclamato: “Ah, finalmente una cosa concreta, una!” Beh, lui non è un poeta, che vuoi farci… non è facile convivere con una sognatrice cronica, che ha un piede sulla terra e l’altro sulle nuvole, una che brucia i quattro salti in padella perché… “ehm, l’ispirazione chiamava!”
6. Dei suoi lavori, è necessario menzionare anche una chicca: il romanzo corale Malta Femmina che ha visto la collaborazione telematica di quattordici autrici nel corso di due anni di lavoro. Racconta di questa esperienza, di come ti ci sei approcciata, di come ha o non ha inizialmente funzionato e di come poi è proseguita fino alla pubblicazione che, se ben ricordo, fu ampiamente pubblicizzata. Com’è stato lavorare insieme per un unico obiettivo? Ti sei sentita subito in simbiosi o, in qualche caso, hai dovuto sacrificare una tua idea per un’altra?
R: Avevo già lavorato con alcune persone del progetto, anche se in modo molto diverso, per una collana di fiabe: “Fantagraphia” di Liberodiscrivere edizioni. A distanza di due anni, la curatrice della collana ha chiamato a raccolta me e altre autrici che riteneva adatte al romanzo e insieme, partendo da un incipit semplice ma ricco di suggestioni (il castello a picco sul mare, la dama nera, il contesto simbolico), è cominciato un lavoro infinito di scambi di idee, opinioni e quant’altro. Alla fine si è giunte alla stesura del canovaccio e ognuna ha potuto in qualche modo scegliere il personaggio da raccontare: guarda caso c’era una zingara “libera” e l‘ho presa io: Kali la nera, un personaggio surreale molto forte, che mi ha permesso di conciliare prosa e poesia e soprattutto di approfondire l’idioma e le tradizioni di Rom, Sinti e Kalè. Mi sono sentita libera e a mio agio – non riuscirei a scrivere diversamente – anche se naturalmente ci sono state lunghe discussioni e poi le correzioni di bozze del libro, una volta trovato l’editore. E’ stata un’esperienza di grande arricchimento e di crescita personale, professionale, umana. In pratica, oltre alla scrittura e a tutto ciò che ne consegue, abbiamo condiviso due anni della nostra vita, due anni molto duri per me, perché nel frattempo ho avuto una bruttissima polmonite e ho perso due creature che portavo in grembo, ma ancora una volta la scrittura mi ha salvata. Poi sono venute le presentazioni a Roma e in altre città, alla fiera di Torino e tante soddisfazioni. Adesso, non paghe, stiamo lavorando a un altro progetto e alla riedizione di un romanzo sempre collettivo, in cui io sono andata a sostituire con un nuovo personaggio un’autrice uscita dal gruppo. Il romanzo è EStemporanea e sarà in libreria tra qualche mese, sempre per Zona edizioni. Amo lavorare “in compagnia”.
7. Dulcis in fundo, la vena artistica di Daniela è ben lungi dall’essersi esaurita: con un nuovo romanzo individuale ed altri lavori, la sua penna continua a muoversi. Come connetti la tua velleità prosastica con quella poetica? Ci sono conflitti? In generale, come definiresti il tuo stile per ciascuna di esse: due mondi differenti in opposizione o entità simbiotiche che beneficiano reciprocamente l’una dell’altra?
R: Ah, io sono un’eclettica e un’irrequieta tremenda: dovrei imparare a incanalare meglio le mie energie, invece ho talmente tanti interessi che tendo ad essere dispersiva. Sto scrivendo una raccolta di filastrocche per bambini, anche se non ho ancora un illustratore, mi esercito con haiku, tanka e componimenti particolari, mi sono anche cimentata nella stesura di un romanzo breve, quello che tu citi e di cui non avrei dovuto parlarti, perché… perché non mi riconoscerà nessuno! Volevo quasi farlo uscire con uno pseudonimo, ma è una cosa troppo infantile; comunque leggerete una Daniela molto diversa, questo è certo, e speriamo anche un minimo interessante.
Riguardo al rapporto tra narrativa e poesia, è un bel guaio e sottolineo bello; probabilmente sono complementari in me, riuniscono – o dividono – le due parti del mio essere. Finchè resto sulla prosa poetica, per la quale mi sento portata perché posso esprimere attraverso di essa non solo contenuti, ma anche l’istintività e la musicalità che mi contraddistinguono, tutto bene. Quando scrivo narrativa cambio quasi completamente rotta: vado sul surreale, sull’ironico o sull’onirico, ho la tendenza a essere più sintetica che in poesia – altra contraddizione. In poesia tutto esce magicamente da un flash, una visione, una musica che mi suona dentro: la seguo e alla fine ritrovo nei versi tutto quel che volevo dire, quasi senza saperlo. Ciò è molto affine al mio carattere, sensibile e sensitivo, soprattutto poi quando si parla di ossimori, metafore e assonanze: mi vivono dentro in caotica armonia.
Con la narrativa invece l’approccio è necessariamente diverso, più razionale: devi avere un’idea, buttar giù una trama e poi scrivere tenendo ben presenti tutti i collegamenti, i dettagli, i profili dei vari personaggi, oltre che importi una disciplina quasi ferrea. Ciò non è affatto affine al mio carattere, ma mi piace, mi aiuta a ragionare e a essere meno indiscipinata. Però raramente riesco a scrivere in entrambi i modi nello stesso momento; quando faccio una cosa mi ci devo immergere completamente.
Se posso, vorrei concludere con una citazione che amo e che sento aderente alla mia esistenza e alla mia poetica: Noi non dobbiamo cessare di esplorare, e il fine di tutta la nostra esplorazione sarà quello di arrivare là dove cominciammo e di conoscere quel posto per la prima volta. (T. S. Eliot)
Infine, ti ringrazio in romanì: Naìs Tuke!
davvero interessante e stimolante intervista.Bravò! Bravà!
Ciao, Taraschino, grazie! 🙂
Bleah! Nauseante.
Grazie ancora Roberto per questa bella intervista a Daniela. Speriamo che il Signor Bubu, visto che ha la nausea, vada a vomitare da qualche altra parte.
Ciao! Adriano
e per fortuna che c’è la moderazione…
Adriano, sono stato incerto se lasciarlo o no il commento. Ai miei testi, tuttavia, non ne ho mai cancellato nessuno e mi sarebbe dispiaciuto iniziare da ora. Chiunque sia, se avrà piacere di argomentare il suo giudizio, farà a tutti un piacere; se invece dovesse risultare solo offensivo anche in futuro… posso sempre impedirgli di postare ulteriormente. Ciao