
Federica Gazzani
1. Ti ringrazio per aver esserti volontariamente sottoposta alle mie torture! Inizio subito chiedendoti di parlarci un po’ di te: da quanto tempo calchi questa terra, cosa studi o fai di lavoro e quando hai incominciato a scrivere?
R: Ho 56 anni e lavoro da sempre nel mondo della comunicazione, specificamente in ambito televisivo. Ho iniziato a Canale5 (ai miei tempi ancora Telemilano, poi Videotime) per passare alla Rai e alla Polivideo, una casa di produzione svizzera riconosciuta a livello internazionale, dove ho avuto la fortuna di conoscere (o, per meglio dire, sperimentare) apparecchiature sempre nuove, negli anni in cui i computer iniziavano a fare i primi passi anche nel mondo televisivo. Ho costruito la mia carriera partendo dalla manovalanza come autista e macchinista, per arrivare agli effetti speciali, alla produzione, al montaggio, alle dimostrazioni di nuovi prototipi nei simposi internazionali e infine all’insegnamento in varie parti del mondo. Nel 1995 sono approdata alla Televisione Svizzera italiana dove ho messo le radici.
Ho iniziato a scrivere molto tardi, intorno ai cinquant’anni e per caso.
2. Specifichiamo meglio ai lettori: cosa hai scritto finora, i generi e i titoli, e cosa ti ha spinto a cimentarti in questa particolare attività letteraria, in particolar modo per quanto riguarda le tipologie peculiari a cui ti sei dedicato? Hai in mente di dedicarti ad un altro genere con i tuoi prossimi lavori? O rimarrai fedele a un tuo progetto o modo di scrivere?
R: Ho scritto “Canto africano”, il mio romanzo autobiografico d’esordio, nel 2003 in un periodo difficile della mia vita, un periodo privo di stimoli e di progetti in cui, per sopravvivere, mi sono aggrappata alla scrittura come forma di terapia. Sinceramente, all’inizio l’ho fatto solo per me, senza alcuna aspirazione al ruolo di scrittrice o alla pubblicazione. Avevo la storia pronta nel cassetto: un’avventura vissuta in prima persona all’età di 24 anni che, ogni volta che la raccontavo agli amici, procurava reazioni di incredulità e di sconcerto. La frase ricorrente era: “È tutto talmente incredibile che sembra inventato, sembra un romanzo!”.
C’era inoltre un attaccamento a quell’esperienza – che mi ha cambiato la vita – che mi costringeva a riviverla ciclicamente, quasi per paura di perdere con il tempo le emozioni, i sapori, gli odori. Una volta messo tutto nero su bianco, mi sono sentita alleggerita, quasi come se avessi finalmente lasciato andare quella storia e mi fossi liberata da una dipendenza senza senso. Perché quando i ricordi sono forti e ci hanno segnato, rimangono dentro di noi indelebili, senza bisogno di essere rievocati. Una volta finita la stesura, ho voluto capire se, per caso, avessi anche solo un briciolo di quella capacità di scrivere che tanto apprezzo negli autori che hanno accompagnato la mia vita (ma senza presunzione!) e anche perché, come dice Mucciolo nella sua intervista: “…se nessuno legge il “messaggio”, che senso avrebbe?”. Dopo aver dato il manoscritto ad alcuni colleghi giornalisti, mi sono interrogata sul loro entusiasmo e sulla sincerità dei giudizi perché – mi son detta – qual è quell’amico che ha il coraggio di dirti in faccia che è meglio lasciar perdere, che la scrittura non fa per te, ecc. ecc.? Così ho scelto a caso tre concorsi letterari, quelli più vicini geograficamente e per scadenza, nell’illusione di ricevere una valutazione onesta dagli addetti ai lavori. Era l’inizio del 2004. Un parere non l’ho mai ricevuto ma, in compenso, “Canto africano” ha vinto la 3a edizione del Premio Letterario “Il Camaleonte” (premiazione alla Fiera del libro di Torino), si è classificato secondo all’8a edizione del Concorso Letterario “Il Giunco”, e nel terzo concorso non si è nemmeno piazzato. E questo la dice lunga su quanto la valutazione di un’opera non abbia regole e, a partire dal gusto personale, soggetta a un’infinità di variabili.
Tra l’altro, il libro edito ha ricevuto una Segnalazione di merito al concorso “Autrice per l’estate 2009” di Livorno. Sull’onda dell’entusiasmo ho iniziato subito a scrivere un nuovo romanzo di fantasia, per mettermi “veramente” alla prova con un genere completamente diverso. Dopo averlo tenuto nel cassetto qualche anno, ora il nuovo pargolo è tra i 200 semifinalisti (1500 al via) di un grande torneo letterario per “anonimi” al quale ho partecipato soprattutto perché sono gli stessi partecipanti a giudicare le opere in gara ed ero troppo curiosa di mettere il naso nella scrittura di esordienti miei simili. Non posso rivelare altro fino a settembre quando, presumibilmente, verrò buttata fuori: il mio romanzo era ancora in fase di revisione e con parecchie cose da sistemare.
3. Hai finora ricevuto, per questi lavori, qualche premio o riconoscimento? Oppure hai partecipato a qualche competizione? In quali occasioni? Raccontaci di queste esperienze: è stato facile per te partecipare e vincere? Lo sarebbe altrettanto per un ipotetico autore emergente? Quanto è stata serrata, a questo proposito, la competizione e come ti sei sentito una volta terminato il concorso: realizzata, determinata, delusa, demotivata? Se no, hai in mente di parteciparvi o ritieni di star lavorando/aver lavorato in attesa di qualche riconoscimento ufficiale che ti piacerebbe ricevere?
R: vedi sopra
4. Prima si parlava di studio e di lavoro: ritieni che questo si sposi adeguatamente con le tue aspirazioni scrittorie? Come concili i due ambiti e cosa consiglieresti a quegli esordienti che si stanno addentrando nel mondo del lavoro, qualunque esso scelgano?
R: Il mio lavoro, ora orientato prevalentemente al settore tecnico, non ha assolutamente niente a che fare con la mia voglia di scrivere, almeno dal punto di vista formale. In realtà attingo continuamente a quanto mi succede intorno, alle caratteristiche di qualche collega, a una frase sentita che mi ha colpito… Scrivo nel tempo libero senza nulla togliere né pretendere dalla professione, in un mondo parallelo che non è in competizione e che mi arricchisce giorno dopo giorno. Essendo io stessa un’esordiente, non ho un bagaglio d’esperienza così vasto per poter dare consigli. Quello che vale per me è mettersi continuamente alla prova e in discussione, senza alcuna aspettativa e senza velleità letterarie.
5. Relativamente al tuo ambito di preferenza: prosa o poesia, ritieni di poterti o volerti cimentare nell’altro campo di scrittura? Pensi possa essere facile o difficile per te e per quale motivo? Quali sono, se ci sono, le dritte che, a questo proposito, potresti dare ai neofiti che, per la prima volta, si stanno facendo attrarre dalle voluttà dell’ispirazione?
R: Ho scritto poesie quand’ero più giovane, ogni volta spinta da un’emozione forte del momento che non sapevo condividere o sfogare in altro modo. Con il passare del tempo ho imparato a gestire meglio e a incanalare quel bisogno di gridare al mondo intero la mia gioia, dolore, sofferenza… e ho smesso. Ma voglio essere onesta fino in fondo e confessare che oltre a non scrivere più poesie non le leggo neppure – ad eccezione di quelle di Alda Merini – perché in genere le trovo troppo contorte e di difficile interpretazione. Amo le cose semplici, chiare, dirette e senza significati reconditi nascosti tra le righe. Quindi non ho dritte da dare. Credo che ognuno scriva sull’onda della propria ispirazione al di là della forma perché, sia per la prosa che per la poesia, in fondo si tratta “solo” di estensioni dei nostri pensieri e delle nostre emozioni. Credo che ognuno debba seguire la propria strada semplicemente “scrivendo”.
6. Da quel che racconti, finora hai pubblicato un solo romanzo: “Canto Africano”. Puoi parlarci più specificamente di questa esperienza? Hai ricevuto critiche, a riguardo, costruttive e non? Ti senti partecipe di uno stile particolare o pensi di poterlo tu stessa definire in qualche modo? Cinquantasei anni sono un’età insolita per cominciare a scrivere: si è parlato degli inizi, come pensi ti si prospetti il futuro e dove pensi di arrivare?
R: Da “Canto africano” ho ricevuto solo gratificazioni. L’unica critica che mi è stata mossa è che quando si inizia a leggerlo non si riesce a smettere fino alla fine: si legge tutto d’un fiato (vi prego di credermi, non sto facendo autopromozione!).
Ben diverso è il mio parere personale che, da buona precisina perfezionista, vorrebbe continuamente correggere qua e là senza mai raggiungere la completa soddisfazione. Mi succedeva lo stesso quando montavo un documentario a cui tenevo molto.
Non ho uno stile particolare se non l’amore per la sintesi e la chiarezza: niente fronzoli o morali sottintese. Perché a me piace dire le cose senza girarci intorno, con la consapevolezza dei rischi insiti nell’essere troppo diretti. Nella mia utopistica concezione del mondo, vorrei eliminare del tutto l’ipocrisia, le manipolazioni e i giochi di finzione, il “detto tra le righe” e il “hai male interpretato, volevo dire un’altra cosa”. Non ho illusioni sul mio futuro di “scrittrice” perché non mi considero tale (Andrea, forse non sarai d’accordo con me!). Penso di saper raccontare delle storie in modo semplice ma con dei limiti. Per me, i veri scrittori sono quelli che hanno uno stile e una capacità espressiva ben più articolati dei miei che – fortunatamente – so riconoscere.
Ma con una buona dose di modestia si può anche migliorare. Io sto imparando molto dalle opere degli altri esordienti del torneo, così come imparo confrontandomi sui forum o leggendo ogni volta che posso. L’importante è non avere la presunzione di “sapere fare tutto”, soprattutto dopo aver vinto alcuni premi che, al contrario, sono stati per me uno stimolo a cercare sempre di più “la mia voce”. Il secondo romanzo ha, in effetti, uno stile diverso dal primo.
Continuerò a scrivere perché mi piace farlo, con la speranza non celata di ottenere comunque dei riscontri positivi. E poi, cos’altro fare – oltre a leggere – quando sarò in pensione senza nipotini di cui occuparmi?
7. Poni, infine, una certa enfasi nello specificare il fatto che il tuo editore non sia a pagamento. Parlaci un po’ del mondo dell’editoria, tu che sei stata a contatto con quello della comunicazione di massa. Come ti ci sei approcciata, quali i criteri di scelta, le impressioni, i suggerimenti che daresti e le opinioni che ti sei fatta in merito.
R: Ahia! Tocchi un tasto dolente.
Il mio approccio con il mondo dell’editoria è stato davvero difficile, come credo quello di tutti gli esordienti privi di contatti nel settore. Ho scoperto a mie spese quanto sia elitario, esclusivo e con un unico fine ben diverso dal preservare e/o valorizzare la letteratura, quello economico.
Nella mia esaltata ingenuità, ho creduto che la vincita di due premi fosse sufficiente per essere presa in considerazione. Certo, ho trovato subito chi voleva pubblicarmi: gli editori a pagamento che pretendevano quale “piccolo contributo” una somma variabile dai 600 ai 9’000 euro! Confesso che vedere il proprio nome già stampato su una bozza di copertina fa un certo effetto, ed è proprio sull’autocelebrazione degli esordienti che punta tutta quella categoria.
Unico, importante consiglio: tenetevi alla larga da loro!
Io sono stata fortunata. Un editore al quale avevo inviato il manoscritto, dopo avermi contattata telefonicamente perché nell’impossibilità di pubblicarmi per mancanza di una collana adatta, mi ha aperto gli occhi sul mondo dell’editoria e sconsigliato di pagare anche un solo centesimo per la pubblicazione, piuttosto lasciare l’opera nel cassetto.
Era Marco Vicentini di Meridianozero, e non smetterò mai di ringraziarlo con tutto il cuore.
Ho tenuto duro e insistito fino a trovare un editore serio, Il Ciliegio – piccolo, ma da lì si comincia! – che ha creduto in me. Ci sono voluti 3 anni, tanta pazienza e un po’ di soldi per rilegare e spedire il malloppo.
Da qui le mie considerazioni: 1) non inviare mai il proprio manoscritto senza prima aver verificato una reale corrispondenza nelle collane degli editori ai quali si intende rivolgersi, ancora meglio contattarli prima; 2) gli editori onesti esistono ancora; 3) non perdersi d’animo e insistere.
Il discorso sulla comunicazione di massa è molto più ampio, soprattutto quando va al di là dei parametri convenzionali della pubblicità, sia in tv che sulla carta stampata.
La comunicazione televisiva è a mio parere molto meno costruita o manipolatoria di quanto sembri. Il più delle volte entrano in gioco semplici esigenze di palinsesto, di durate e di riempimento piuttosto che di indagine o di approfondimento sociale. Ma, come dicevo, il discorso è lungo e nel mio caso centra poco con l’editoria.
Grazie ruairidh,
grazie per lo spazio che mi hai dedicato anche sul tuo blog. :-))